Evanescenza ed esotismo sono i rischi che corre la condizione popolare nel mondo contemporaneo. Ondivaghi ed evanescenti sono infatti gli usi mediatici del temine «popolo». Questo non viene più rivendicato da una collettività consapevole e coesa, ma da compagini estemporanee e raggruppamenti solitari, da chi insomma rispondendo a esigenze momentanee si sente parte, ad esempio, del «popolo di Internet» o del «popolo dei consumatori».
Sono poi sempre più diffusi i discorsi di coloro che spingono la dimensione popolare ai margini, declassandola a componente secondaria, residuale e, appunto, esotica. Le culture popolari non sono più tra noi o per lo meno facciamo finta di non vederle, essendo più comodo collocarle nei pressi di popolazioni lontane o confinarle nelle frange periferiche delle subculture urbane.
Strategia ingenua è questa! Le pratiche popolari non possono essere strumentalmente incasellate, non le si può sacrificare in nome di un elitismo diffuso e massificato. È questo l’inganno del dispositivo populista ovvero delle tecniche più avanzate con cui la sfera degli usi popolari viene oggi sfrontatamente e politicamente offesa.
L’uso frequente della parola «popolo» segnala non solo abusi strumentali, ma la necessità di una risignificazione condivisa e diffusa del popolare stesso. Per fare questo è necessario riconoscere quelle pratiche che aprono autentici spazi collettivi e avviano imprese comuni. Il nuovo lessico popolare non ha bisogno di neologismi ma di pratiche condivise. Anche l’ecclesiologia e la teologia fondamentale non sono semplici spettatrici dello stato nascente a cui stiamo alludendo, ma sono sempre più coinvolte in autentiche e talvolta audaci imprese comuni.
È così che il popolare si profila oggi non solo come oggetto d’indagine, ma come orizzonte aperto e inclusivo. In questo modo la sfera degli usi e dei saperi di un popolo è in grado d’accomunare e allo stesso tempo d’emancipare chi ne fa parte. Solo accostandosi a queste qualità e adottandone la prospettiva è oggi possibile parlare di una chiesa che non si accontenta di avere un volto popolare, ma che pretende e assume la forma del popolo.1
Il saggio di Paolo Carrara affronta giustappunto la questione del cattolicesimo popolare oggi. Con questa espressione l’autore intende circoscrivere non solo il campo delle proprie indagini, ma un autentico compito ecclesiale, quello di un cattolicesimo fedele all’esperienza cristiana quale possibilità offerta credibilmente e generosamente a tutti.2 È questo un aspetto fortemente caratterizzante la teologia del popolo maturata nel contesto culturale ed ecclesiale argentino.
Questa particolare riflessione teologica si è dispiegata in virtù di un triplice contributo: quello di Paolo VI e della sua riconsiderazione della pietà popolare in Evangelii nuntiandi (n. 48), quello di teologi come Lucio Gera e Rafael Tello3 e infine quello dell’arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio il cui contributo alla stesura del Documento di Aparecida fu particolarmente significativo.4
La versione argentina della teologia del popolo se da un lato valorizza gli aspetti inclusivi e comunicativi della religione popolare, dall’altro promuove una visione culturalmente centrata degli usi e dei saperi di ciascun popolo. «Ciò che il“cattolicesimo popolare”ricorda è che non è possibile un incontro del cristianesimo con la cultura se questo non accetta d’interagire con le forme culturali (pratiche) attraverso le quali si esprime la ricerca religiosa (del senso) dell’esistenza. Esso mostra che il cristianesimo è chiamato a interagire con quelle forme, che toccano le modalità di vivere lo spazio, il tempo, le relazioni (personali e collettive), di simbolizzare le esperienze di base della vita come la nascita, l’amore, il piacere, il lavoro, la sofferenza e la morte. Quelle forme, infatti, designano l’apertura pratica delle coscienza, individuale e collettiva, al reale e, per questo motivo, possono essere ritenute delle forme elementari che sintetizzano la sensibilità popolare» (214s).
Il cattolicesimo di popolo non è dunque una mera opzione pastorale, ma l’assunzione di una precisa forma ecclesiale. Per questo è necessario che la comunità dei credenti si percepisca come comunità di sequela, ricorrendo all’immagine e alle pratiche del «popolo di Dio fedele» (cf. anche C.M. galli, «Papa Francesco – teologia: Il ritorno del popolo di Dio. Ecclesiologia argentina e riforma della Chiesa», in Regno att. 5,2015,294).
Rinnegare dunque il cattolicesimo popolare significa «rifiutare il volto di una Chiesa che viene a strutturarsi come popolo, ovvero che s’immagina come un soggetto collettivo che dà concretizzazione al “per tutti” della fede. In gioco è la trasformazione del volto di Chiesa e della stessa figura dell’esperienza cristiana: proprio per questo motivo la questione non può essere consegnata all’arbitrio di qualche attore ecclesiale. In positivo, cercare di assumere per l’oggi il “cattolicesimo popolare”come metodo di immaginazione pastorale, nonostante la sua apparente debolezza, consente di impegnarsi a far sì che la Chiesa non si riduca né a una setta né a una comunità affinitaria, ma che continui a essere espressione della capacità del Vangelo di raccogliere, in unità, le differenze (di sensibilità, di età, di provenienza). La sfida consiste nel fare in modo che a tutti, potenzialmente, continui a essere offerta la possibilità di incontrare l’esperienza cristiana, di abbracciare la fede e di maturarla nei rispettivi contesti di vita e secondo le energie a sua disposizione» (227s).
In linea con la prospettiva appena enunciata, s’aprono molteplici percorsi e imprese ecclesiali. Una di queste è senz’altro l’assunzione della processualità quale dimensione ermeneutica e disposizione costitutiva del popolo di Dio. Questo non semplicemente ripete un contenuto dottrinale, ma vive nella tensione storica ed esperienziale di chi accosta la Parola alla vita, il Vangelo ai suoi ascoltatori.
Tutto ciò ha molteplici effetti e implicazioni: instilla nelle comunità cristiane un interesse per la vita quotidiana e una particolare attenzione verso le scienze che se ne occupano, valorizza gli aspetti antielitari della civiltà parrocchiale che hanno generato un autentico cattolicesimo di popolo, guarda con favore e stupore non solo al desiderio di partecipazione che anima il popolo di Dio ma all’esperienza della convocazione, quella che fa della Chiesa una comunità estatica, la comunità dei «chiamatfuori».
Vincenzo Rosito
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